Tatuarsi è un viaggio – La storia sulla pelle di Debora
C’è qualcosa nel nostro DNA che non so spiegare, qualcosa che ci porta a modificare il nostro corpo in un modo diverso dalle persone
attorno a noi; lo abbiamo reso una vetrina dove poterci raccontare.
PARTE PRIMA: CHI SONO E LA MIA STORIA.
Mi chiamo Debora, classe ’89.
Da che mi conosco ho sempre amato osservare come la moda e la modificazione corporea siano strumenti di identificazione sociale, ed è così che sin da piccola ho sperimentato su me stessa il più possibile. Quando andavo a scuola alle elementari, oltre allo zainetto obbligatorio, sfoggiavo qualche accessorio particolare come una borsetta di jeans che usavo per le caramelle, il burro cacao e il walkman. Erano immancabili i trasferelli, quei simpatici adesivi che emulavano i tattoo dei grandi, con cui mi riempivo le braccia di nascosto.
Crescevo e osservavo le persone, cercando di capire come e perché si differenziassero tra loro: alcuni si vestivano solo di nero, altri indossavano gli stessi vestiti, gli stessi brand. Queste “scelte” le ho sempre percepite come la volontà di esprimere il proprio IO.
La consapevolezza che fossero decisioni dettate dalle mode del momento o un canone estetico è arrivata con il tempo.
Il mio viaggio con i tatuaggi è iniziato probabilmente un’estate di diversi anni fa. Era pomeriggio e ricordo che ero seduta sugli scalini fuori dalla scuola media, avrò avuto circa 12 anni, un ragazzo per cui avevo una cotta si presentò con un libricino pieno di disegni e foto di tatuaggi. Ne rimasi folgorata!
Quelle immagini di braccia piene di disegni mi colpirono tantissimo, ma all’epoca i tatuati, almeno dove sono cresciuta io, erano pochi se non inesistenti. Questo mondo affascinante, fatto di inchiostro sulla pelle, era molto lontano dal mio quotidiano.
Per tanto, come ogni cosa che non coltivi, con il tempo perde forza e me ne dimenticai.
Arrivarono poi gli anni delle superiori e a quei tempi ascoltavo la musica metal, il rock, il punk tanto da innamorarmi di tutta la loro estetica che condizionò il mio modo di vestire. Mi tinsi i capelli di nero, indossai calze a rete, gonne di pelle e qualche maglietta dei miei gruppi preferiti. Sempre in quegli anni ritrovo i tatuaggi attraverso la lettura.
Leggevo fumetti e manga giapponesi, di cui uno in particolare raccontava le vicende di un gruppo di giovani punk, “Nana” di Ai Yazawa.
Ricordo che oltre ad essere rappresentati con un look molto da stereotipo, ovvero con spille da balia sui vestiti e creste come acconciatura, presentavano anche dei tatuaggi.
La scintilla del tattoo si riaccende.
Comincio a fare ricerca online e tra le poche informazioni presenti in rete dell’epoca scopro per la prima volta la storia di Sailor Jerry e del mondo marinaresco. Mi colpirono in particolare i disegni delle sue rose. Ovviamente scarico più immagini possibili e inizio a disegnare rose a ripetizione. Avevo già il vizio di disegnarmi addosso, anzi, di disegnare ovunque, anche sulle mie amiche e compagne di classe. Realizzavo a penna fiori, tra cui spesso le rose, faccine manga e decorazioni arabeggianti in diversi punti del corpo, dalle mani all’addome. In quel periodo sulle riviste di tendenza e gossip si vedevano diverse persone tatuate con tribali e,
vista la tendenza, tra le mie compagne di classe le decorazioni a penna su pelle avevano un grande successo.
Alla fine era solo un gioco divertente tra adolescenti.
Arrivarono poi gli anni dell’università e per me significò un cambio regione oltre che città, conobbi tante persone nuove. In questi anni i disegni che vedevo sui coetanei non erano più a penna ma veri e propri tatuaggi realizzati da tatuatori.
L’ipnosi aumenta e questo argomento torna ad attirarmi sempre di più come il miele per le api. Leggo, chiedo e quando posso cerco di approfondire. Nonostante questa “attrazione fatale” comunque resterò ancora “non praticante” fino a diversi anni dopo la mia laurea in Fashion and Textile Design conseguita alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano – Naba.
Immediatamente dopo la laurea inizio a lavorare come stagista junior fashion designer a Milano e per un periodo va anche tutto bene finché quel ruolo comincia a starmi stretto. Decido di cambiare la mia situazione.
Trovo un’opportunità come Ethical Fashion Designer in Etiopia e così a 23 anni decido di partire per l’Africa.
Inizio il mio lavoro come designer di accessori in una realtà del commercio equo solidale.
L’Italia, ancor meno dell’Europa in quegli anni, non era affatto sul pezzo per quanto riguarda questo tema anzi era nel pieno del suo percorso con le grandi aziende di fast-fashion. Io sapevo di andare contro corrente ma il progetto mi piaceva tantissimo oltre a darmi la possibilità di approfondire la cultura locale e conoscere persone provenienti da tutto il mondo.
Un giorno conobbi una ragazza etiope molto giovane tatuata sulla fronte.
Era una cosa per me stupenda e mai vista prima, lei mi spiegò che il suo tatuaggio era di base religioso a dimostrazione della sua fede oltre ad essere un simbolo di protezione dal “male”. Non approfondii sul momento la faccenda, ma quell’immagine rimase impressa nella mia mente, tanto che omaggiai quella ragazza e quel tatuaggio qualche anno dopo in uno shooting fotografico per la mia collezione moda, disegnata e prodotta da me tra l’Italia e l’Etiopia; grazie all’utilizzo del make up, sulla fronte di una modella, riproducemmo lo stesso simbolo tatuato sulla ragazza etiope conosciuta nel mio viaggio.
Anche in quella occasione, per le vie di Addis Abeba, mi resi conto di quanto sia profondo il desiderio delle persone di rappresentare su se stessi, tramite qualsiasi forma e mezzo, la propria identità tra cultura e convinzioni.
Questo episodio, come altri, mi confermarono che il mio interesse per il tatuaggio e la body modification non era mutato, anzi era un punto saldo.
Programmo il mio rientro in Italia definitivo e, contrariamente al discorso del tatuaggio, tutte quelle cose che dovevano essere stabili cambiavano con una certa frequenza. Giusto per farti qualche esempio tra queste cose c’erano fidanzati, lavori e le case in cui vivevo. Fu un periodo della mia vita delicato e ci misi diverso tempo per ritrovare un minimo di stabilità.
In realtà ci convivo a tutt’ora.
Tornado a noi posso dirti che questo amore per il tatuaggio non sboccerà in qualcosa di concreto fino ai miei 29 anni, il giorno in cui ho preso in mano la mia prima macchinetta a bobina e mi sono autotatuata.
Detta così può far sorridere, ma in realtà c’è una premessa da fare: non fu un tatuaggio fatto del tutto senza esperienza. Facciamo un passo indietro: un giorno, tra i 28 e i 29 anni, mi presentai in uno studio di tattoo senza alcuna esperienza e mi proposi come apprendista. Dalla mia parte avevo buona volontà, conoscenze come fotografa e nell’ambito della gestione dei social.
Per qualche grazia divina mi accolsero e di questo, oggi, ne sono ancora molto grata.
Vivere l’esperienza dello studio, come una famiglia, mi ha aiutata a superare quel periodo difficile che accennavo prima. Quella serie di cambiamenti drastici nella mia vita fu alleggerita dallo studio di tattoo, oltre ad avermi aiutata a migliorare le mie conoscente sul tema dei tatuaggi.
Il motivo per cui scelsi di cambiare direzione e andare in uno studio di tattoo fu perché stavo cercando di capire cosa amavo davvero e lì la risposta fu molto semplice: il disegno e la curiosità per questo mondo.
Ed è così che sulla soglia dei trent’anni ho dato vita al mio progetto personale di espressione.
Probabilmente è iniziato inconsciamente già da piccolina con un certo modo di vestire, continuando con lo studio della moda e ora semplicemente prosegue tatuando il mio corpo. Questo crea così un nuovo confine, non più di tessuti, ma di inchiostro tra la mia persona e il mondo esterno. Per me il tatuaggio è parte del proseguimento del mio viaggio personale che alla fine ognuno compie, può essere parte della trasformazione e definizione della propria identità.
PARTE SECONDA: I MIEI TATUAGGI
1. LA ROSA
Il mio primo tatuaggio è stato una rosa sulla caviglia, ho scelto quel punto principalmente perché era comodo visto che ero io ad eseguire quel tatuaggio. Inoltre era un punto strategico, facilmente copribile con un calzino.
Il soggetto della rosa l’ho scelto in onore di Sailor Jerry, il primo tatuatore che ho incontrato sul mio cammino.
Il disegno è grezzo e con solo due colori: il rosso e il nero, che rimandano ad un’estetica old school.
Un mio amico tatuatore mi diede supporto durante l’esecuzione, mi aiutò a sistemare lo stencil, nell’eseguire qualche linea e nel riempimento con il colore.
Alla mia rosa sono molto legata, resta il mio primo tatuaggio auto eseguito e mi ricorda il bel periodo passato in studio come apprendista.
2. IL PESCIOLINO CARTOON
Infatti il mio secondo tattoo è arrivato pochissimo tempo dopo. Si tratta di un pesciolino in stile cartoon sulla gamba sinistra.
Scelsi quel pesciolino di colore blu da una bacheca in un giorno di walk-in nello studio di un mio amico tatuatore.
Quel disegno era lì appeso ed era come se mi stesse guardando, oggettivamente fu una scelta impulsiva, però mi piace pensare che io e lui, in un certo senso, ci siamo scelti. Mi sento attratta dalle profondità del mare, volevo rappresentare la mia volontà di superare
l’ignoto, l’inesplorato e così ho adottato sulla mia pelle quel buffo pesciolino.
Senza prendermi troppo sul serio lo considero una piccola guida al mio fianco, il mio animaletto fortunato. Mi ricorda che, anche se è così piccolo, sopravvive nell’acqua blu e profonda dove non si vede il fondo. Di riflesso posso farcela anche io, non lasciandomi sopraffare dalla paura dell’ignoto.
3. IL MANDALA GIGANTE
Il mio viaggio di espressione continua con il terzo tatuaggio alla soglia dei miei 30 anni.
Ho pensato: “a questo giro si fa sul serio.”
Decido di assecondare il mio amore per il disegno decorativo e dedico una buona parte di pelle a questo pezzo.
Il mio terzo tatuaggio è un mandala (proprio come quelli che racconti nel tuo approfondimento su questo sito) che copre tutta la mia spalla sinistra e buona parte della schiena.
Il tatuatore ed io cercavamo una posizione diversa dal solito e avendo delle spalle proporzionate abbiamo notato che decentrando il soggetto rimaneva comunque ben bilanciato con il resto della schiena.
Il soggetto è stato realizzato tutto in dot work, un punto alla volta, in più di 20 ore di seduta spalmate in qualche mese. Un tatuaggio così grande mi ha permesso di scoprire fin dove posso arrivare.
In passato ho sempre sostenuto di avere buona forza di volontà e pensavo anche una buona resistenza al dolore.
Il mio essere caparbia mi ha permesso letteralmente di scalare delle montagne e mantenere alta la concentrazione anche sotto stress. Quando lavoravo nella moda, per esempio, la fashion week imponeva ritmi alti, senza pause e riposo.
Tornando al mandala una delle sessioni di esecuzione fu svolta in una Convention e in quel caso il tatuatore lavorò sulla mia schiena per tutta la giornata. Ricordo che nella mia testa sapevo di potercela fare, di poter resistere, e nonostante la mia concentrazione fosse buona, il mio corpo smise di sopportare. Ad un certo punto piansi mentre il mio corpo tremava e la mia pelle pulsava. Non mi era mai successa una cosa del genere.
La situazione “drammatica” durò giusto qualche minuto, il tempo di scaricare la tensione muscolare e lo stress della giornata.
Essendo comunque poi a fine giornata e con entrambi esausti la seduta terminò lì.
Fu stancante sì, ma vedere l’avanzamento del tatuaggio e il disegno che prendeva forma sulla mia schiena ripagava gli sforzi fatti. Aggiungo che quel giorno non mi portai a casa solo un tatuaggio nuovo, appresi un’altra lezione: non comanda solo la mia testa e la mia volontà, ma devo ascoltare tutto di me stessa per capire quello che mi fa stare bene e questo include il mio corpo.
4. LA SCOPERTA DELL’HAND POKE
Il mio ultimo tattoo è arrivato a febbraio 2020, poco prima della pandemia che ci ha costretti in casa, oltre alla chiusura degli studi di tatuaggi per tutto il periodo di quarantena.
Questa volta desideravo approfondire la tecnica hand poke perché mi riconduceva a un’espressione primitiva del tatuaggio, scelsi così con cura il tatuatore e prenotai parecchi mesi prima la seduta.
Dal momento che non amo particolarmente i miei piedi, li trovo piccoli e non troppo proporzionati rispetto alla mia altezza, ho deciso di tatuarli per “donargli un po’ di amore”.
Il giorno della seduta ho chiesto alla tatuatrice di disegnare un soggetto con delle linee che potessero dare un effetto verticale al collo del mio piede prendendo a riferimento simbologie antiche. L’ispirazione è così arrivata dal popolo berbero, oltre alle linee parallele sono state poi realizzate delle piccole “V” con puntino a ricordare il simbolo della palma che nella cultura berbera rappresenta la fertilità. Infatti questi piccoli simboli erano principalmente tatuati sul mento delle donne, come un talismano di protezione.
È un tatuaggio che amo particolarmente, ogni volta che lo guardo, il mio piede sembra più bello.
In programma ho di riproporre lo stesso soggetto anche sull’altro piede, per avere un aspetto più equilibrato.
PARTE TERZA: CONCLUSIONE
I tatuaggi sono segni che parlano di noi e della nostra identità.
Per ora il mio viaggio di espressione della mia persona si è fermato, ma lo continuerò finché potrò e spero anche molto presto. Ho in progetto tanti soggetti diversi e molti tatuatori che vorrei conoscere, oltre che osservare mentre sono all’opera.
Sono stati mesi importanti quelli che ho passato in studio come apprendista tatuatrice, ad ora però, quella non è la mia strada diretta. Rimane una di quelle cose in cui non voglio mettermi fretta. Va bene così per ora. Ogni cosa a suo tempo, perché quando è il cuore a decidere bisogna sapere come tutelarlo.
Il tatuaggio continua a restare tra i miei interessi maggiori e ad essere in parallelo con il binario della mia vita.
Nella vita continuo principalmente a dedicarmi al digitale come Content Creator e alla fotografia, senza però dimenticare il mio progetto personale di moda etica. In ultimo mi diverto ancora a prendere in mano la macchinetta e quando posso, in quelle occasioni dove i miei amici vogliono un pezzo mio, tatuo con grande soddisfazione.
Mi sento grata verso la vita perché ho incontrato il Tatuaggio e posso vivere la nostra storia, il nostro viaggio con grande passione. Sono grata di potermi raccontare qui in questo sito e ringrazio Francesco e chiunque sia arrivato a leggere fino a qui.
Il tatuaggio è un viaggio. Percorrilo con amore.
Debora
Grazie a te Debora per la tua storia, raccontata tra l’altro anche in maniera ordinata.
Sai quando lessi per la prima volta il tuo racconto, soprattutto la descrizione del tatuaggio berbero, mi vennero in mente le parole di Herbert Hoffman che disse: “Chiunque si tatua, lo fa per dare a se stesso qualcosa di più: per essere più bello, per sentirsi e apparire più forte, più sexy, per dare sfogo a un dolore, un lutto, una gioia, un amore, per scongiurare una paura, un pericolo o per gioco… Ci si tatua per esprimere i sentimenti più seri e profondi come per quelli più superficiali e frivoli e… perché no? per rivendicare il proprio diritto al gioco.”
Spero che il tuo viaggio con il tatuaggio possa continuare e ricambio i tuoi saluti con una frase tratta dal tuo testo, augurandola anche ad ogni lettore: “Devo ascoltare tutto di me stessa per capire quello che mi fa stare bene e questo include il mio corpo.” Il rispetto di se stessi con o senza inchiostro dovrebbe essere alla base del nostro viaggio.
Francesco






























